Ho aperto gli occhi sul cielo limpido di un sabato mattina di fine settembre. Il calore del sole è sceso sulle mie spalle come un leggero foulard e mi ha scaldato il cuore. Passando davanti allo specchio ho notato un’insolita luce nei miei occhi… qualcosa dentro mi diceva di andare.
Non sapevo esattamente dove: avevo raccolto qualche informazione spicciola e l’ho sommata all’istinto ed a qualche indicazione. Ad una svolta della strada, il panorama sulla valle si è aperto e sulla sinistra, dopo l’ultima curva, è apparso.
Castelnuovo dei Sabbioni, il vecchio paese, quello che chiamano il paese fantasma.
Se ne stava lì quasi nascosto.
Ho aperto lo sportello della macchina e la prima cosa che mi ha colpita è stato l’assoluto silenzio, rotto solo dal ronzio di qualche calabrone e dallo starnazzare che proveniva dal lago giù nella valle.
Ho percorso la breve distanza che mi separava da quella sorta di giocattolo perduto e abbandonato, rimasto prezioso nel cuore di tutti coloro che vi erano fortemente legati.
Generalmente mi muovo sulle orme di qualche eco letteraria… anche stavolta è andata così, mi ci ha portata Nico, ma si tratta di un racconto che non ha ancora visto la stampa, e forse nemmeno pretende di vederla. Una cosa privata e come tale non la citerò.
Oggi c’è un cancello che si apre sul paese ed orari che ne definiscono l’apertura. Mi fa strano… ma in realtà sono gli orari di apertura del Museo Mine, adiacente alla Chiesa.
Mentre varco il cancello in ferro mi torna alla mente un’espressione spesso utilizzata dai viaggiatori del passato e ripresa poi tutt’oggi: L’Italia è un enorme museo a cielo aperto … come non essere d’accordo mentre, nell’assoluto silenzio, inizio a salire lungo la strada principale che mi porta in Piazza IV Novembre. Un bel palazzo a tre piani attira la mia attenzione, ma i numerosi piloni messi all’interno per sostenere i solai mi fanno presto passare dalla mente l’idea di scavalcare la recinzione ed entrare. Piuttosto mi giro e mi guardo intorno e provo ad immaginare.
In un attimo la piazza si riempie di grida di entusiasmo e vedo ragazzini giocare e rincorrersi tra di loro, intrufolarsi poi nelle stradine laterali e sparendo al mio sguardo. Proseguo lungo la strada e costeggio altre case abbandonate.
Dalle porte si intravede l’interno, il tetto crollato fa filtrare la luce del sole. Tra tegole in frantumi, vecchi tavoli, caminetti, persiane rotte, intravedo occhi vispi di ragazzini che si nascondono. Più avanti un gruppetto sta decidendo chi sarà il primo ad affrontare la prova di coraggio che prevede di scavalcare la rete che delimita l’abitazione pericolante, entrare all’interno della vecchia casa ed andare in esplorazione di ciò che ne rimane all’interno.
Lasciandomi andare ancora più a ritroso nel tempo, alzo la testa e le persiane rotte e sgangherate tornano ad aprirsi perfette lasciando passare lo sguardo di qualche anziano affacciato sulla vita che scorre lungo le strade: operai che rientrano dopo una stancante giornata di lavoro nella miniera, bambini che gli corrono incontro, donne ferme a chiacchierare di fronte alla chiesa, posta come sempre in alto, come a rappresentare una rassicurante protezione.
Poi spari… grida e ancora spari. Era il 4 luglio del 1944, quando una rappresaglia della milizia tedesca in ritirata, radunò gli uomini del paese nella piazza e barbaramente li uccise. Emilio Polverini era un bambino… in un’intervista ricorda quell’atroce giornata e l’ultimo saluto di suo padre.
Di nuovo il silenzio.
Sono le 13. La ragazza del museo scende con me lungo la strada. Il cancello si richiude, il paese torna deserto. La storia si ferma di nuovo. I bambini che poco prima avevo visto scorrazzare o nascondersi tra le abitazioni e la piazza, tornano ognuno al proprio posto, insieme a tutti gli altri … attori di un teatro che si ripete ad orari ben precisi, al cigolio che segna l’apertura del cancello, sotto lo sguardo di chi sa far rivivere nella memoria la vita di un paese abbandonato ormai molti anni fa.
Mi soffermo ancora un po’, fuori dal cancello. Respiro quell’aria tranquilla e silenziosa. Osservo ancora un po’ le case dai tetti squarciati e le persiane aperte e decadenti, l’edera che copre quasi interamente una grande abitazione. Guardo all’interno, anche se da lontano. Vedo le case come contenitori di storie…
Intanto un cane bianco si affaccia al muretto dietro le mie spalle: anche lui non dice niente, rispetta quel silenzio e mi osserva attento, scodinzolando. Che voglia raccontarmi qualcosa? … poi volta la testa alla sua destra, ed io seguo il suo sguardo: un altro cane, stavolta nero, fa lo stesso.Si affaccia, mi osserva ma non abbaia, non dice niente. Il loro sguardo intenso mi colpisce, ma in un attimo scendono e spariscono di nuovo. Che siano anche loro degli attori?